sabato 22 marzo 2008

Comunione senza cioccolata

(Battista Bettanin - Sarcedo)


Correvano i primi anni trenta del millenovecento, gli anni della Grande Depressione Economica seguita al crollo delle borse del 1929, che mise in ginocchio l’economia di tutto il mondo.
Mio padre era emigrato all’estero per trovare lavoro e di conseguenza mia madre doveva sobbarcarsi, oltre al turno di nove ore in una fabbrica tessile, anche all’ oneroso impegno di mandare avanti la piccola azienda agricola di famiglia.
Nei lavori dei campi era aiutata con ammirevole solidarietà dai parenti e da tutti i vicini della corte, ma al governo della stalla, che la occupava tutti i giorni dell’anno per almeno due ore al mattino ed altrettante alla sera, doveva provvedere da sola.
Avevo da poco passato i sei anni quando, dopo un breve corso di preparazione, venni ammesso alla Prima Comunione
La cerimonia era stata fissata per le ore 10 della prima domenica d’aprile; quell’ora andava bene per tutti:sia per i bambini, che non erano costretti a fare una levataccia in quel loro giorno di festa, sia per i genitori, che, terminati i lavori del mattino, potevano accompa-gnarli in chiesa.
La mia fantasia era stata particolarmente colpita da un punto del programma della cerimonia: il rinfresco nella sala del Patronato dopo la messa, con cioccolata, bi-scotti e pasticcini.
D’improvviso, però, giunse dal vescovo al parroco l’ordine di trasferirsi immediatamente in un’altra parrocchia.
Per tutta la comunità quella novità arrivò come un fulmine a ciel sereno: non se ne conoscevano con certezza le ragioni, ma, tenuto conto della povera, piccolissima frazione persa fra i monti alla quale era destinato, non era di sicuro una promozione. Probabilmente tutto era causato dalle manovre dei fabbricieri, che da tempo brigavano in Curia per farlo andar via dalla parrocchia insieme al sacrestano, che con lealtà si era schierato dalla sua parte.
Umiliato dal vescovo e tradito dai suoi più stretti collaboratori, il parroco reagì molto male; si auto-emarginò anche dalla comunità e di punto in bianco, deludendo le ardenti attese dei bambini e senza tener conto dei problemi che avrebbe creato alle famiglie, dall’oggi al domani cambiò interamente il programma: spostò la cerimonia della Prima Comunione dalla messa delle dieci – Messa Seconda - a quella delle cinque – Messa Prima - ed annullò il rinfresco con la cioccolata, i pasticcini e i biscotti, quel rinfresco tanto desiderato, sognato e atteso dai bambini di quegli anni poveri, che era sempre stato fatto in occasione delle Prime Comunioni di tutti gli anni precedenti, che era diventato una tradizione e che era stato ripetutamente e solennemente promesso anche quell’anno durante il corso di preparazione, tanto che per essi il rinfresco era diventato importante quanto la comunione.
Nel dialetto della provincia di Vicenza si dice “bioto” il pane che si mangia senza companatico e “biota” l’insalata che si mangia senza condimento: fu sicuramente “biota” anche quella Prima Comunione nella mia parrocchia, e non solo perché non ci fu il rinfresco, ma anche perché il parroco tolse alla cerimonia ogni solennità ed ogni aria di festa.
Il cambiamento d’orario della messa, poi, dalle dieci alle cinque, diventò un grosso problema per mia madre: a quell’ora, infatti, essa era impegnata negli indifferibili lavori del governo della stalla, così che, non potendolo fare lei, dovette chiedere il favore di condurle il figlio in chiesa alla Teresa, una vicina sua compagna di fabbrica, che abitualmente andava a quella messa delle cinque.
Mi svegliò alle quattro, mi raccomandò che, lavandomi il viso, tenessi la bocca ben chiusa per non rompere il digiuno, controllò che il vestito nuovo fosse in ordine e insieme uscimmo in istrada che era ancora notte fonda ad aspettare la Teresa, che mi prese in consegna e mi depositò in uno dei banchi delle file “davanti”, riservate ai comunicandi.
Assolta questa prima parte dell’incarico, la Teresa andò nel solito posto nel quale tutte le domeniche aveva un appuntamento fisso con una sua sorella abitante in un’altra zona del paese (quella delle due sorelle che arrivava in chiesa per prima “occupava” subito per l’altra, con la borsa, una sedia vuota accanto alla sua); le due donne, che durante la settimana non avevano nessun’altra occasione d’incontrarsi e sempre tante cose importanti da dirsi, approfittavano della messa domenicale per aggiornarsi sulle ultime novità delle rispettive famiglie, e, se avanzava tempo, anche del paese.
La messa celebrata alle cinque del mattino di quella prima domenica d’aprile fu più l’ostentazione da parte del parroco del suo avvilimento e della sua umiliazione, che la messa di una Prima Comunione: non fece la predica, non fece il minimo accenno, neanche per salutarli, a quei bambini che, pieni di eccitazione ed attese, erano venuti in chiesa a quell’ora antelucana ed erano sui primi banchi non per caso, ma per una cerimonia speciale dedicata a loro e molto importante - gli avevano spiegato - della loro vita; ci ignorò completamente, come ignorò tutti i presenti, e in meno di venti minuti celebrò una funzione che poi ricordammo come la Messa del Dispetto, la più breve che avesse mai celebrato; subito dopo - umiliato, offeso, col cuore gonfio del rancore dei proscritti - lasciò per sempre la parrocchia.
Per i miei compagni, comunque, nonostante i contrattempi causati dal cambio del programma, la Prima Comunione fu ugualmente un avvenimento importante, un giorno speciale, fatto dai grandi per festeggiare il loro passaggio dall’infanzia alla fanciullezza: ne erano, e se ne sentivano, i protagonisti, festeggiati, colmati d’affetto e di regali, al centro delle premure dei familiari, che facevano a gara per farli felici.
Non ci furono manifestazioni di allegria e festeggiamenti dopo la messa, per un rispetto verso il grave dispiacere del parroco, che non voleva contatti con nessuno. I genitori vennero a prendersi i figli nei banchi, uscirono in fretta dalla chiesa e se ne andarono subito via: in chiesa restavo soltanto io e mi guardavo attorno sconcertato: non vedevo da nessuna parte la mia accompagnatrice.
Il vecchio sacrestano, spente le candele e le luci dell’altare, scese lungo la navata già deserta per chiudere la porta della chiesa e rimase stupito quando mi vide: gli capitava spesso di trovare berretti, borse, ombrelli dimenticati dai fedeli, che depositava in un angolo della chiesa nel cassone dei distratti, ma fino ad allora non gli era mai successo che qualcuno dimenticasse un bambino.
Per le persone anziane e abitudinarie ogni situazione nuova è un grosso problema e lui, che aveva passata la notte insonne per l’incombente licenziamento da parte dei fabbricieri, entrò in crisi: non poteva regolarsi con me come faceva solitamente con gli altri oggetti dimenticati.
Senza rendersene conto, mi parlò con tono brusco e con rabbia, come se avesse davanti ed apostrofasse uno degli odiosi fabbricieri: ”Ma come hanno fatto a dimenticarti qui in chiesa? Io chiudo”. Non seppi rispondere: senza ragione (come mi accadeva sempre dopo un rimprovero) mi sentii in colpa; mi alzai di scatto e corsi verso l’uscita; fuori, cozzai duramente contro il buio ostile e revulsivo della notte, ma l’esitazione durò un attimo, vinsi la paura e mi slanciai di corsa verso casa in cerca di sicurezza.
Entrai nella corte; nella stalla c’era la luce accesa (segno che mia madre era ancora là); preferii andare in cucina e vi rimasi al buio, seduto sulla panchetta bassa davanti alla finestra, triste, rassicurato un poco dalla luce che dalla stalla rischiarava una zona del cortile.
Dopo più di mezz’ora, quando ormai l’avevo completamente dimenticata, d’improvviso irruppe nella corte la Teresa e passò, nera come il buio di fuori, davanti alla finestra; non si accorse di me, per fortuna, vide la luce accesa nella stalla, vi si diresse di corsa e ne uscì immediatamente con mia madre. Mentre attraversavano il cortile, spiegava che, finita la messa, aveva accompagnato, come faceva tutte le domeniche, la sorella fino allo stallo a riprendersi la bicicletta; ritornata indietro appena un attimo dopo, non mi aveva più trovato. Si era spaventata moltissimo, mi aveva cercato dappertutto, aveva chiesto informazioni a tutti, ma nessuno aveva saputo dirle niente.
Io sapevo che non diceva la verità; quando presi la rincorsa verso casa, era già passato parecchio tempo dalla fine della messa, non un attimo, e non poteva aver chiesto informazioni a nessuno, perché non c’era più nessuno né dentro la chiesa buia, né fuori; sicuramente le due sorelle, invece, a causa della brevità della messa non avevano fatto in tempo a dirsi in chiesa tutto quello che avevano urgenza di dirsi e dovettero fermarsi ancora un attimo, lungo almeno mezz’ora, nello stallo delle biciclette per dirsi il resto. Mia madre entrò in cucina con la Teresa, accese la luce e videro che ero là, vicino alla finestra, seduto immobile sulla panchetta bassa. La Teresa disse:“ Meno male che sei a casa sano e salvo, mi hai fatta stare in pensiero da morire, ti ho cercato dappertutto, brutta canaglia, dove ti sei nascosto dopo la messa?” Poi, finalmente, tolse il disturbo. Mia madre, prima di tornare alle sue incombenze nella stalla, mi preparò il caffelatte, lo zuccherò moltissimo (sapeva che per me non era mai troppo dolce) e più premurosa del solito, sentendosi forse in colpa per non avermi accompagnato (ma io sapevo che le era morto il cuore per non averlo potuto fare), me lo portò con il pane e un grosso pacco di biscotti Doria. “Mangiali pure tutti, li ho comperati apposta per te”.
La sua premura, il caffelatte e la sicurezza della casa tonificarono in poco tempo (come accade, per loro fortuna, ai bambini) il mio umore e tornai a rasserenarmi.
L’aria adesso era diventata chiara e la corte cominciò ad animarsi. Ritornò Richetto, che faceva la guardia notturna in una fabbrica e smontava con il turno della notte. Arrivò la Lena che, per aiutare mia madre, ogni giorno, mattina e sera, ritirava il nostro vaso con il latte munto e lo conferiva con quello della sue mucche al caseificio, appendendo i due vasi (il nostro ed il suo) al manubrio della bicicletta, uno da una parte e uno dall’altra. Uscì la Ida, di undici anni, e giocando con le bambole cantava: “Cosa m’importa a mi se ‘l pan xe caro, mi go l’amante mio che fa ‘l fornaro”. Finalmente uscì nella corte anche l’amico che aspettavo con impazienza, mio cugino Carlo, di tre anni più vecchio di me e che, allora, era il mio punto di riferimento nel mondo.
Proposi a Carlo di mangiare i biscotti Doria. La risposta di Carlo fu precisa :”Dove sono?” e in pochi minuti nella guantiera rimase un solo biscotto. Ci guadammo per un attimo, ma Carlo, che con me era abituato a comandare, perché, diceva, “l’anzianità fa grado”, assunse l’iniziativa e come se stesse compiendo un rito, prese il biscotto fra le sue mani, lo spezzò, ne diede metà a Bruno, tenne l’altra per sé ed ognuno di noi mangiò la propria parte con gioia ed allegria, in segno ed a suggello della nostra amicizia: quella fu la mia Prima Comunione.
Quando uscii con Carlo nella corte, per perderci poi nei campi, nelle strade e nelle case vicine in cerca di altri compagni ed occasioni di gioco, come molle non più comprimibili scattarono l’energia vitale ed il desiderio di gioia della mia età e dimenticai la delusione del rinfresco mancato, lo smarrimento nella chiesa vuota dopo la messa e la paura nella corsa solitaria nel buio verso la mia casa.Di quel memorabile giorno della Prima Comunione non c’era niente d’importante per me che valesse la pena di ricordare, salvo i biscotti Doria che la mamma aveva comperato apposta per me e che Carlo ed io spartimmo fraternamente.

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