A furia di stare ad ascoltare la Rosa, mi ero quasi convinto che l’acqua del mare potesse penetrare attraverso i buchi delle orecchie e del naso con il risultato, pressoché istantaneo, di avere un cervello annacquato. Sia chiaro, i tempi erano quelli che erano, non certo i migliori, ma quell’eventualità non era il massimo delle mie aspirazioni anche se poco più che bambino. Avevo già un tarlo che mi opprimeva la mente. Quando non capivo una cosa al volo, la paura era quella di sentirmi piovere addosso il rimprovero della Rosa: "Ciò, dime, par caso te xè ‘ndà l’aqua al sarvèo?".
Io rispondevo secco di no perché, a mia discolpa, avevo la certezza matematica che al mare non ero mai andato. D’altronde poi, quando facevo il bagno, una volta alla settimana, dentro il mastello di legno con l’acqua messa a scaldare al sole, stavo bene attento a non mettere mai la testa sott’acqua. Fino al collo sì, massimo fino al mento, con la bocca chiusa come una morsa e con la testa proiettata a guardare in alto il soffitto della cucina o addirittura il cielo, se in piena estate. Rifiutavo perfino di lavarmi le orecchie, passandole con un fazzoletto inumidito.
"Gheto paura de negarte?" chiedeva mia madre.
"No, go paura che l’aqua la me riva al sarvèo!" rispondevo.
"Chi xè sta dirtèo?".
"La Rosa".
"No la ga altro da insegnarte, pardiosanto!".
A onor del vero, la Rosa mi insegnava on saco de robe. Ti parlava di tutto, tranne che di sesso, s’intende! In termini di paragone, lei era non tanto un mare, quanto un oceano di saggezza! Era una enciclopedia parlante anche se quando le facevi una domanda in più del dovuto dava a vedere di perdere anche quella poca pazienza che aveva e di mettere il muso da insustà.
"Vuto savergane ‘na pagina pì del me libro?" sbottava, interrompendo di brutto ogni relazione di buon vicinato.
Usava molte iperboli nel suo parlare. La sua vocazione era principalmente quella di parlare, non di dover ascoltare. Quelle rare volte che lo faceva, ascoltava con una espressione serafica per poi cambiare improvvisamente umore e tono.
"Ma quanto xèo grande el mare?" chiedevo alla Rosa
"Tanto fa el Brenta, col fa la brentana!" rispondeva lei
"Mia vero, me nono me gà dito…"
"To nono in caregoto, xè vero sì!"
"Ma ti lo gheto visto el mare?"
"No, meo ga dito me poro bisnono"
"Qualo bisnono?"
"Me bisnono Toni che vegnèa xò dai monti rugoloni!".
"Ma de che colore xèo el mare?"
"Maròn, verde e zalo, come on schito de galo!"
"Mia vero, me nona me ga dito…"
"To nona in carioea, xè vero sì!".
"Chi xè sta dirtèo?"
"Meo ga dito ‘na comare"
"Quala comare?"
"Me comare Maria co’ la ‘pansa discusìa!"
"Ma quanto xèo alto el mare?"
"Tanto fa el canpanie dea cesa"
"Mia vero, me mama me ga dito…"
"To mare in gondoeta, xè vero sì!"
"Chi xè sta dirtèo?"
"Meo ga dito Jijio"
"Qualo Jijio?"
"Jijio Contabae che pissa nel bocae!".
"Ma quanto xeo fondo el mare?"
"Tanto fa el cueo de ‘na damigiana"
"Mia vero, meo pà me ga dito…"
"To pare inbriago, xè vero sì!"
"Chi xè sta dirtèo?"
"Meo ga dito Toni"
"Qualo Toni, to bisnono?"
"No, Toni Baùco, queo ch’el ga sepelio viva la ciupinara ne l’orto!".
La curiosità di vedere il mare, almeno una volta, era infinitamente grande. Da piccolo non immaginavo neppure lontanamente che avrei dovuto aspettare di compiere i diciott’anni prima di poter scrutare il mare. Un sabato sera, in pieno inverno, con una spesa di cinquecento lire divisa in quattro, alla pompa della Caltex Boron del paese avevamo riempito quasi mezzo serbatoio della Seicento Fiat andando alla scoperta di quel nuovo mondo. Navigando un po’ a vista e un po’ puntando il dito sulla cartina geografica, eravamo finalmente approdati alla costa più vicina, il mare di Sottomarina.
Un’ora abbondante per andare, mezz’ora di sosta in riva al mare, poco meno di un’ora per tornare al paese in tempo utile per raccontare l’avventura a quanti erano rimasti all’osteria non disponendo delle 125 lire per la benzina.
Il mare, quasi per dispetto, era sembrato volersi nascondere ai nostri occhi. Avevamo udito il fragore delle onde arrivare verso di noi appostati in silenzio su una montagnola. Doveva essere probabilmente una duna di sabbia. Avevamo tutti i muscoli tesi, il berretto calato sulle orecchie e le mani sprofondate nelle tasche, svuotate poco prima alla pompa di benzina. Non avevamo più una lira, ma non era quello il pensiero che ci faceva accapponare la pelle, bensì il freddo cane, per vedere che cosa? Non avevamo visto nemmeno la linea che separava l’acqua dal cielo nuvoloso, così scuro e pesante da inabissarsi. Mare e cielo sembravano specchiarsi l’uno nell’altro, uniformati nella stessa materia e nello stesso colore. Nemmeno una luce tremolava in lontananza per conferire un alito di vita alla creatura marina. Sembrava di stare davanti a una parete dipinta di nero come quando a scuola si finiva in castigo dietro la lavagna dovendo stare ritti sull’attenti con il naso incollato alla superficie di ardesia. Complici il viaggio lampo e la piena oscurità, sembrava quasi che la Rosa avesse ragione di tutte quelle fandonie che mi aveva raccontato sul mare soltanto una decina d’anni prima!
Ancor prima della maggiore età, fremevo dal desiderio di verificare di persona se il mare era davvero come lo aveva descritto la Rosa o se era tutt’altra cosa. Certe volte non c’era da fidarsi proprio di quella donna nonostante a ogni mia perplessità lei rispondesse facendo uso della solita, proverbiale, collaudata formula, xè vero sì! Dubitavo di lei perché notavo che nel pronunciarla provava una maligna soddisfazione piantandosi saldamente a gambe larghe e con le mani ai fianchi.
Mi domandavo, ad esempio, come mai quei miei coetanei che andavano al mare in colonia, tornavano a casa con il cervello ancora a posto senza che l’acqua del mare avesse danneggiato, peggio ancora devastato, il loro sarvèo.
Mi dicevano, ma io non credevo, che il Marieto sapeva galleggiare, fare il morto con la pancia in sù, con la testa sotto, il naso sopra il pelo dell’acqua da sembrare la pinna dorsale di un pescecane. Mi dicevano che lui si tuffava addirittura con la testa all’ingiù senza stringersi le narici del naso con le dita. E poi mi dicevano che il Marieto sapeva tenere gli occhi aperti anche sott’acqua. A lui neppure gli bruciavano un po’, tutti gli altri dovevano ritornare a riva strofinandosi gli occhi che si arrossavano come due pomodori.
Per mia fortuna, crescendo, e non soltanto di statura, mi ero convinto che l’acqua non poteva assolutamente entrare nel cervello, né attraverso le orecchie, né attraverso gli altri buchi della faccia. Me lo aveva spiegato, mostrandomi anche una illustrazione su un gran librone di medicina, il dottor Rossato, il medico condotto tuttofare, il quale sapeva perfino togliermi i denti con la pinza, senza far spreco dell’anestesia.
"L’acqua potrebbe entrarti semmai nei polmoni, oppure nello stomaco, ma nel cervello assolutamente mai e poi mai!" mi aveva detto un bel giorno il dottore con una spiegazione più che rassicurante.
Un’altra cosa non capivo! Perchè mai mi era preclusa la possibilità di andare al mare in colonia mentre i soliti fortunati andavano puntualmente ogni estate, consecutivamente, dai 6 fino ai 12 anni compiuti.
La tentazione di andare in colonia a Jesolo, a Sottomarina, perfino a Cervia, per un mese intero, si affievoliva un po’ ascoltando quello che raccontavano i miei compagni al loro ritorno. Altro che vacanza. La colonia marina la dipingevano come una prigione! La direttrice permetteva a quel nugolo di bambini, come un branco di pinguini, di entrare insieme in acqua alle undici e mezza del mattino agitando in aria un fazzoletto verde. A mezzogiorno meno dieci sventolava con un braccio alzato un fazzoletto rosso, il segnale che bisognava uscire. Se qualcuno faceva finta di non vedere e indugiava un solo secondo, il giorno dopo, per castigo, non gli era concesso di fare il bagno e di giocare sul bagnasciuga.
Meglio forse restare a casa, in corte, dove potevamo rimanere a giocare tutto il tempo che volevamo! Potevamo ugualmente costruire un vulcano grande quasi come il Vesuvio con un cratere così profondo che a fatica riuscivamo a riempirlo d’acqua. La paura era che potesse eruttare lava incandescente da un momento all’altro e seppellire il casarmòn come era successo con Pompei ed Ercolano. Valeva allora la pena, per scampare al pericolo, spianare il vulcano e costruire sulle sue ceneri un castello, non necessariamente il Maschio Angioino, sempre di Napoli. Poteva andare benissimo il Castello Sforzesco di Milano se non altro per poter issare sulla sommità del mastio la bandierina dell’Inter o quella della Milan. La scelta dipendeva dal fatto se era stato Sandro Mazzola, oppure Gianni Rivera, a segnare il gol decisivo nell’ultimo derby della Madonnina!
Quando ci stancavamo di riempirlo con i secchi d’acqua, facendo la spola fino all’Armedola, il fossato intorno al castello diventava una pista olimpionica di bob dove lanciare dal ponte levatoio le piccole biglie di terracotta. Soltanto il Fulgido aveva le biglie di vetro, ma proprio per questo rimaneva escluso dalla competizione. Chi completava per primo i dieci giri della pista, si guadagnava il diritto di ritornare a giocare in corte anche il giorno successivo.
La nostra spiaggia era lì, bella comoda, a due passi dalla porta di casa e per di più privata. I compagni di classe, i piassaroti, quelli della piazza, si mettevano in fila per chiedere di poter venire a giocare in corte almeno un pomeriggio alla settimana. Durante la ricreazione il mio banco di scuola si trasformava nella scrivania di un ufficio di collocamento dove si prendevano appuntamenti e si fissavano giorni e turni di presenza.
Pensare che la nostra spiaggia era nient’altro che la sabbionaia collocata in un angolo del brolo, all’ombra di una pergola di vite fragola che in autunno ti inebriava con il suo intenso profumo. Bisognava stare attenti a non sprecare neanche un granello di sabbia. La sabbionaia era delimitata da quattro assi di legno, alte non più di trenta centimetri, inchiodate alle estremità a formare un quadrato perfetto. Vicino c’era la busa della calsina recintata con il filo spinato per impedire che finissimo dentro soprattutto quando nelle tiepide serate di maggio correvamo come puledri in libertà a rincorrere e imprigionare tra le mani le lucciole.
La sabbionaia era in funzione da un anno all’altro perché la sabbia, più che per i nostri giochi, serviva per fare la malta impastata con la calsina. La corte era un cantiere edile perennemente aperto senza tanto bisogno di ottenere il nulla osta dall’ufficio tecnico comunale. C’era sempre la necessità di ampliare, sistemare, ristrutturare, non tanto l’abitazione, quanto piuttosto il grande forno, la stalla, il fienile, la barchessa, il porcile, il pollaio, non ultimo la concimaia.
La ricchezza di una famiglia la si misurava non tanto contando i soldi depositati in banca, i schèi che i coreva come la giara in scarsèa o quelli nascosti dentro il materasso di scartossi, ma semplicemente squadrando le dimensioni del luamaro. La Rosa mi aveva detto, senza tanto il bisogno di dilungarsi oltre in quella lezione sul mare, che mi gero on toseto fortunà perché, ad andare in colonia, erano i fioi dei poareti, quelli che avevano, sì e no, gnanca on petachìn in scarsèa. Poteva avere anche una sacrosanta ragione, ma io non ci credevo mica tanto a quella versione dei fatti. A mio parere ero io un porocàn che rimanevo a casa e non gli altri che andavano in vacanza al mare per un mese intero.
Resta il fatto che a non andare in colonia erano i bambini come me che a fianco delle finestre e della porta di casa avevano un bel luamaro grando. Chi non aveva il luamaro, ogni anno andava al mare.
Tommasino Giaretta – Quinto Vicentino
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento